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60 tonnellate bastano a schiacciare una colomba?



È vero, e una storia datata e che molti non hanno dimenticato, ma c’è un motivo per riproporla proprio oggi: è una storia che parla di Pace e di America, e se a Gaza le armi hanno cessato il loro peana di morte, a Washington un uomo di colore prende possesso della Casa Bianca chino sotto i sogni di molti.

Questa storia ci mostra una faccia dell’America diversa da quella che conosciamo, e solo il tempo saprà dirci se, almeno in parte, questa diventerà la vera faccia dell’America. E sempre il tempo ci dirà se una tregua, che sembra fragile come questa dolce colomba bionda, potrà sopportare il peso della politica.


Ti sei perduta in un sogno,
ci siamo ritrovati a sognare in te

come ha votato Al Qaeda?


sappiamo che gli americani all’estero, anche se il voto rimane segreto, danno la loro preferenza a uno dei due candidati con largo anticipo rispetto ai connazionali in patria. Non ci è dato quindi sapere come abbiano votato gli appartenenti ad Al Qaeda imprigionati a Guantanamo, cui auspico sia stata offerta l’opportunità di farlo, visto che, come detenuti a tempo indeterminato, sono ormai diventati cittadini americani a tutti gli effetti, pur non avendo ancora ricevuto la consacrazione definitiva di un mutuo subprime per potersi dedicare a un’accurata ristrutturazione delle loro gabbiette da polli. In nostro soccorso arriva però il Washington Post...

Continua a leggere su Giornalettismo, e un buon fine settimana a tutti

(il postino delle sei) - questa volta ci tocca pagare il caffè...


l’ottimo Massimo Gramellini, uno dei pochi giornalisti italiani degni dell’inchiostro che consuma, su “La Stampa” di ieri metteva a fuoco l’obbiettivo della sua penna sugli scatoloni con cui i dipendenti della Lehman Brothers uscivano dalla monumentale sede centrale della quarta banca d’affari più importante al mondo.

L’immagine mi ha fatto venire in mente la famosa scena del film di Bernardo Bertoloucci, “ L’ultimo imperatore”, in cui gli eunuchi lasciano la Città Proibita reggendo solennemente con le mani un cofanetto che contiene qualcosa di “ molto personale”.

La mestizia era la stessa, e il buon Gramellini la descriveva con abilità e indulgenza (vi lascio l’articolo: è corto e merita di essere letto).

Io invece mi chiamo fuori, ben sapendo che, ad eccezione di qualche impiegato, quegli uomini avevano tratto per anni lauti guadagni da un mestiere che aveva perso il fascino con cui era nato e che il buon Salgari ci aveva narrato: la pirateria.

Più precisamente la pirateria finanziaria ai massimi livelli.

Troppe volte mi sono visto rintuzzare le critiche alla politica a stelle e strisce con l’ammirazione plebiscitaria per un’economia che, a differenza della nostra, viaggiava col vento in poppa, incurante del canto delle sirene della mera speculazione. Troppe volte ho dovuto incassare sorrisini di sufficienza quando cercavo di spiegare che da quelle parti si erano dati a giochi di poco più raffinati di quello delle tre campanelle, che è ancora in voga di fronte alla stazione della mia città e che Giuseppe Culicchia ben descrive in “ Torino è casa mia”.

E ora che è rimasto un conto da saldare, ora che lo zio Sam ha già offerto a Fannie e Freddie, a chi pensate toccherà andare alla cassa. A milioni di piccoli risparmiatori in tutto il mondo che, direttamente o indirettamente, vedranno la loro barchetta iniziare a far acqua da tutte le parti. Anzi, credo che purtroppo alcuni di quelli che mi stanno leggendo, alla cassa ci sian già passati e si siano resi conto che non era solo questione di pagare il caffè.

(il postino delle sei) - il viaggio del Papa negli Stati Uniti





“Ho una grande ammirazione per un paese che è riuscito a coniugare così bene la modernità e i valori cristiani.”


un altro articolo molto interessante sull'argomento è quello di Finazio

" L'ultimo saluto "

Il Maggiore dei Marines Steve Beck si prepara all'ispezione finale sul corpo del Tenente J. Cathey, solo pochi giorni dopo aver comunicato alla moglie di Cathey della morte del Marine in Iraq. Bussando alla porta egli perpetua una tradizione vecchia di due secoli; una tradizione basata sul motto: “Mai abbandonare un Marine”.

Alla vista della bara di suo marito avvolta dalla bandiera, Katherine Cathey scoppia in un pianto incontrollabile, trovando conforto fra le braccia del Maggiore Steve Beck. Quando Beck aveva bussato alla sua porta per comunicargli la morte del marito, la donna lo aveva aggredito verbalmente e aveva rifiutato di parlargli per più di un ora. Nei giorni successivi, egli l'aveva aiutata ad affrontare il suo dolore e la sua opinione nei confronti del Maggiore era cambiata a tal punto che, sul piazzale dell'aeroporto, di fronte alla bara del marito, non avrebbe voluto altri al suo fianco.

Dopo l'arrivo del corpo del Tenente James Cathey all'aeroporto di Reno, i marines salgono nella stiva dell'aeroplano e avvolgono la bandiera sulla sua bara mentre i passeggeri osservano la famiglia riunirsi sul piazzale. L'anno precedente, all'arrivo della bara di un altro marine al Denver International Airport, il maggiore Steve Beck descrisse la scena come una delle più intense dell'intera procedura: “ Vede le persone ai finestrini? Se ne stanno lì seduti nell'aeroplano, guardando quei Marines. Ti chiederai cosa passi nelle loro menti, sapendo di essere stati nell'aereo che lo ha portato a casa,” disse. “ Ricorderanno di essere stati su quell'aereo per il resto delle loro vite. Ricorderanno di avere portato quel Marine a casa. Ed è giusto che sia così.”

Poco dopo l'arrivo della bara del marito all'aeroporto Reno, Katherine Cathey si lascia cadere, affranta, sulla bandiera. Quando il Tenente James Cathey era partito per l'Iraq, le aveva scritto una lettera che diceva, fra l'altro: “Non ci sono parole per descrivere quanto ti amo e quanto mi mancherai. Ti prometto una cosa: tornerò a casa. Ho una moglie e un bambino di cui prendermi cura, e voi due siete la mia vita.”

Il Maggiore Steve Beck e un altro Marine si avvicinano alla casa dei genitori del Tenente James Cathey, preparandosi ad accompagnarli all'aeroporto per ricevere il corpo del figlio. Cinque giorni prima gli ufficiali preposti a questo compito avevano fatto lo stesso percorso per portare la notizia che nessuna famiglia di militare vorrebbe mai sentire. La bandiera con la stella dorata alla finesta sta ad indicare la morte di un proprio caro oltreoceano.


Jo Burns piange, aprendo, insieme al marito, i pacchi contenenti le uniformi del figlio, provenienti dal'Iraq che il Maggiore Steve Beck ha appena consegnato loro. “Per me, riavere tutta questa roba è una buona cosa,” ha commentato lei, qualche minuto più tardi. “Voglio ricordare. Non voglio smettere di ricordare, o di provare qualcosa.” Bob Burns ha stretto le mani della donna fra le sue. “Neanch'io voglio dimenticare,” ha commentato. “Solo, non voglio che questo peggiori le cose.”

Il sergente dei Marine Jeremy Kocher veglia il corpo del Caporale Evenor Herrera di Eagle, Colorado, mentre adulti e bambini porgono i loro omaggio alla salma. Come molti Marine di stanza nella base aerea di Bakley, Kocher sostiene che l'organizzazione del funerale è la più difficile missione a cui abbia partecipato. “Comincio a pensarci dal momento in cui mi sveglio. E' un compito molto importante. Non voglio assolulamente che qualcosa vada storto. Tutto deve essere perfetto.


Alcuni membri del 23°squadrone controllo aereo della Marina di stanza alla base aerea Bukley scortano la bara del Caporale Evenor Herrera al cimitero di Eagle Colorado. Fin dall'inizio della guerra, i Marines di Buckley hanno partecipato ai funerali di 16 Marines in servizio attivo; 12 morti in Iraq e quattro morti in incidenti stradali.

Blanca Stibbs, al centro, riposa poggiando la testa sulla spalla di suo marito, David Stibbs, mentre i Marines della Guardia D' Onore ripiegano la bandiera che ha avvolto la bara del figlio, il caporale Evenor Herrera, durante la funzione funebre al Cimitero Sunset View ad Eagle, Colorado. 19 agosto 2005.

Lori DeMille di Oceanside, California, carezza la lapide del Caporale dei Marines caduto Kyle Burns, al cimitero nazionale Fort Logan. Venerdi 29 aprile 2005. DeMille aveva assistito Burns (originario di Laramie, Colorado), mentre era di stanza a Camp Pendleton. Si trovava a Denver per partecipare alla cerimonia di sostegno ai Marine che operano in Iraq.

Durante la cerimonia solenne denominata “ Ricordando i coraggiosi”, vengono consegnate ai familiari dei Marines caduti le medaglie al valore. Il Maggiore Steve Beck si prepara a consegnare una medaglia.

Jo Burns di Laramie, Wyoming , al centro, conforta il caporale Dustin Barker, 22 anni, durante la Cerimonia in ricordo dei Marines caduti. Sabato 30 aprile 2005. Il figlio di Jo Burns, il caporale Kile Burns, è stato ucciso in Iraq durante un'azione di guerra, l'11 novembre 2004. Il caporale Barker era in servizio insieme al caporale Burns ed era con lui quando fu ucciso.

Il Capitano Chris Sutherland, a sinistra, il Sergente Maggiore Jeff Study, il Sergente Clifford Grimes e il Sergente di artiglieria Todd Martin si preparano a consegnare le medaglie al valore ai familiari dei Marines caduti. Durante la cerimonia solenne, denominata “Ricordando i coraggiosi,” hanno fatto anche dono alle famiglie di un vaso con delle rose gialle – una rosa per ogni anno di vita dei Marines caduti.

Katherine Cathey preme delicatamente il suo pancione sulla bara del marito, piangendo sommessamente. Al bambino, nato il 22 dicembre 2005, è stato dato il nome di James Jeffrey Cathey, Jr.

Il corpo di James Cathey è stato straziato dalla potente esplosione di cui è stato vittima, per cui, la sua salma è stata delicatamente ricomposta in un sudario dagli addetti funebri militari, e la sua uniforme è stata deposta sul suo corpo. Dato che Katherine Cathey aveva deciso di non vedere ciò che restava di lui, il Maggiore Steve Beck guida la sua mano, facendole esercitare una lieve pressione sull'uniforme. “Lui è qui” le dice con voce pacata. “Proprio qui...”

La notte precedente la sepoltura del marito, Katherine Cathey rifiuta di abbandonare la sua bara, chiedendo di poter dormire accanto al suo corpo per l'ultima volta. I Marines le preparano un letto proprio sotto la bandiera. Prima che si addormentasse, uno dei Marines le ha chiesto se avesse preferito che lui continuasse la veglia funebre. “Sarebbe meraviglioso se continuasse a farlo,” gli disse. “Credo proprio sia quello che lui avrebbe voluto.”

Per tre giorni di seguito, I Marines hanno vegliato il corpo del Tenente James Cathey, prendendosi solo brevi pause in una stanza vicina alla Camera Mortuaria, dove il Sergente Davis Rubio si sta stropicciando gli occhi dopo un breve riposo. Rubio era stato inviato a rappresentare i Marines alla Università del Colorado, dove aveva incontrato per la prima volta Cathey. “Non ho mai sopportato quel tipo di servizio,” aveva detto Rubio. “Quando stai in un college, sei completamente al di fuori da ciò che sta accadendo in Iraq... Più discutevamo dell'argomento, meno avevamo la sensazione che capissero.”

Il giorno prima del funerale del loro amico, il Tenente Jon Mueller, a sinistra, e il Tenente Matthew Baumann si esercitano per ore a ripiegare la bandiera, per essere certi di non compiere alcun errore il giorno successivo. “Sarà l'ultima volta che ripiegheremo questa bandiera,” gli aveva detto il Maggiore Steve Beck, mentre li istruiva. “Tutto deve essere perfetto!”

Il funerale del figlio si avvicina, e Jeff Cathey non riesce a smettere di piangere. Aveva spesso trovato conforto proprio negli uomini che vestivano la stessa uniforme del figlio. “Qualcuno mi ha domandato che cosa ho imparato da mio figlio,” racconta “Lui mi ha insegnato che nella vita si ha bisogno di più di un solo amico.”

Prima dell'inumazione del corpo di James Cathey, sopra la sua bara vengono posti i guanti bianchi dei Marines che lui aveva indossato, la sabbia che avevano portato dalle spiagge di Iwo Jima, e una rosa rossa.

il merito di quest'articolo che trova ospitalità sul mio blog, va integralmente attribuito all'amica Marilena (Macfeller) che si è dedicata con rara maestria al faticoso lavoro di traduzione. L'idea è nata dalla vergognosa constatazione che un articolo che aveva vinto due premi "Pulitzer", per il testo e la fotografia, e che è stato tradotto in quasi tutte le lingue del mondo, dalla stampa italiana non è stato ritenuto degno della stessa fatica.

aggiungo questa foto, inviatami dall'amico Alberto, che credo possa essere un'ottima chiusura per quest'articolo



scacco pazzo?



il 17 gennaio di quest’anno Bobby Fischer ha perso una partita. La cosa non è capitata spesso al grande campione di Brooklyn, e credo che a tutti noi non possa non dispiacere che la partita in questione fosse quella con la vita.
Tutti di Fischer ricordano un immagine vincente, a tratti arrogante. Tutti ricordano la straordinaria vittoria contro Boris Spassky del 1972 nella “Partita del Secolo”, che più che una sfida di scacchi si era trasformata nella versione a tavolino della Guerra Fredda. Le richieste capziose di Fisher agli organizzatori, dopo l’incredibile sconfitta della prima partita, portarono alla perdita a tavolino anche della seconda, e diedero l’idea che il tutto dovesse chiudersi rapidamente in favore del russo. La rimonta che ne seguì e che lo portò alla vittoria finale, è rimasta leggendaria e fece di lui un eroe in tutto il mondo e lo strumento preferito della propaganda nazionale. Nel 1975, le sue nuove richieste regolamentari non furono accolte dalla federazione, e Fischer non si presentò a difendere il titolo che finì nelle mani di Karpov.
La parabola del campione iniziò la sua fase discendente e in breve tempo prese una dinamica rovinosa. Fischer si avvicinò a movimenti religiosi assai discutibili, prese assurde posizioni antisemite e di negazione dell’olocausto, e per errore finì in galera scambiato per un rapinatore. Riemerse dall’anonimato esattamente vent’anni dopo la sfida del secolo per replicarla con Spassky nell’ex-Jugoslavia che era sotto embargo ONU. Fischer sputò sul documento che doveva impedire la sua partecipazione e giocò la sfida, gli Stati Uniti emisero un mandato di cattura internazionale che impedì per sempre al campione di rientrare nel proprio paese.
Nel 2001 esultò dai microfoni di un'emittente radio filippina per gli attentati alle torri gemelle e tre anni dopo venne arrestato all’aeroporto di Tokyo per un irregolarità sul passaporto: in realtà le autorità nipponiche agivano su mandato americano. Il suo vecchio nemico Spassky tentò di intercedere presso la presidenza degli Stati Uniti, chiedendo la liberazione di Fischer, o in alternativa che fosse arrestato a sua volta, visto che si era macchiato delle medesime colpe: unica condizione, la stessa cella e una scacchiera. Ciononostante, Fischer conobbe di nuovo il carcere e, una volta rilasciato, ottenne asilo in Islanda, proprio il paese in cui si era svolta la sfida del secolo oltre trent’anni prima e dove è morto qualche giorno fa per una crisi renale. Quando scese la scaletta dell’aereo che lo portava a Reykjavík, le telecamere inquadrarono la sconfortante immagine di quello che sembrava un senzatetto e l’ombra dell’uomo e del campione che era stato.
La storia di Bobby Fischer suggerisce alcune conclusioni.
Anzitutto ci ricorda che il fatto di volare molto in alto con ali di cera può rendere oltremodo tragica la caduta, e ci conferma la pazzia che sembra affliggere quasi tutti i grandi maestri di scacchi, quasi che il cervello, costretto ad espandersi oltremisura, finisca per cannibalizzare se stesso. Ma soprattutto ribadisce la propensione degli Stati Uniti ad attribuire valore pressoché nullo all’esistenza di una persona, che come mito, consunto fino alla trama dalle lodi, può sempre essere rivoltato e servire altrettanto bene al dileggio: cosa che forse può offrirci una chiave di lettura per altre storie del grande paese crudele.

Per concludere, da questa partita durata una vita, pensate che sia uscito sconfitto Bobby Fisher o gli Stati Uniti d’America?

(il postino delle sei) - il mondo a un passo dal baratro nucleare



come ben sapete la penna ha corrispondenti in tutto il mondo, di cui va giustamente orgogliosa.
Ed è proprio grazie a uno di questi che possiamo garantirvi che il mondo è stato a un passo dalla Guerra Nucleare… altro che crisi dei missili a Cuba.
I famosi barchini iraniani che si sono avvicinati nello stretto di Hormuz a tre navi della flotta americana, non hanno gettato in acqua finte bombe, come riportato dalle agenzie, ma foto…
purtroppo, per un triste malinteso al posto delle foto di Osama Bin Laden, in mare sono finite foto di Obama Barak . Ma queste, a differenza delle altre, erano una provocazione inaccettabile per i signori della guerra e il mondo per una sola consonante ha rischiato di essere prepensionato dopo milioni di anni di onorato servizio.

(il postino delle sei) - " I have a dream "


sono passati oltre quarant'anni da quando Martin Luther King pronunciava queste parole davanti al Lincoln Memorial, al termine di una marcia per i diritti civili.
Martin non c’è più, ma ci ha lasciato il suo sogno.
Oggi il suo sogno è più vicino e ha iniziato a muovere i primi passi verso la Casa Bianca.
Il suo sogno, e anche il mio, si chiama Obama ed ha vinto le primarie in Iowa, uno stato bianco al novantacinque per cento.
Tutto qui, ma ci terrei ad aggiungere che Obama è l’unico candidato che abbia avuto il coraggio di schierarsi apertamente contro la guerra in Iraq.

(il postino delle sei) - il dottor Mengele va in giro in “Fiorino”



davvero difficile oggi stare nelle dieci righe, che sono il mio patto coi lettori.
Aggirerò lo sbarramento con un
link.

Negli Stati “Uniti Dal Mancato Rispetto Della Dignità Umana”, non è raro veder girare camper come quelli della foto. Fanno parte di un progetto chiamato “Projet Prevention” dedicato con amorevole sollecitudine a drogati e alcolizzati, e finalizzato allo scambio della risolutiva cifra di 300 dollari con la sterilizzazione dei soggetti che accettino il baratto.
Ovviamente, i soldi ottenuti vengono immediatamente trasformati dai beneficiari nell’equivalente di alcool o di droga, con grande soddisfazione delle organizzazioni, lecite o illecite, dedite a rifornire i rispettivi mercati.
Ci siamo spesso domandati quanto valga una vita per gli amici americani, e ci siamo stupiti quando amici di altre parti del mondo ci rispondevano quasi nulla. Devo richiamare con fermezza questi ultimi: quanto appena scritto dimostra che per gli americani la vita umana vale ben trecento dollari… forse centocinquanta, visto che la capacità di procreazione non è monouso.
Ho esaurito lo spazio, ma ci tengo a sottolineare che l’encomiabile progetto è sostenuto da fondi statali, federali e da svariate migliaia di dollari raccolti negli ambienti conservatori del paese.

Caro dottor Mengele, l’uomo è fallace, e chi meglio di lei ce lo potrebbe testimoniare: chissà per quale inopinata ragione, dovendo scegliere una delle Americhe, ha preferito quella del Sud, giocandosi la terra che sarebbe senz’altro stata la sua patria d’elezione.

p.s. mi scuso coi lettori per aver ripreso un argomento che, vista l’importanza, ha monopolizzato le prime pagine dei giornali per mesi e mesi

mi si è svampata l’atomica, Signò…



Togliete il baffetto a Musharraf, e anche fisicamente, assomiglia al servo sciocco di Bisio. E come il servo sciocco di Bisio ne inventa di tutti i colori: per esempio, è stato l’unico capo di stato a fare un golpe contro se stesso, invece di subirlo o sventarlo.
Ovvio che il padrone americano non può approvare pubblicamente che Ariel prenda a bastonate gli avvocati, invece di farli accomodare nel salotto buono, né che usi lacrimogeni al posto del “Vetril” per far pulizia nelle piazze. Ma è altrettanto ovvio che Ariel non possa attendere la pronuncia della Corte Suprema che sta per licenziarlo in tronco, invalidando la sua rielezione.
Tutto bene, ma non fatevi ingannare dall’abilità dei comici: per quanto paia improvvisare, Ariel ha concordato il copione con Bisio e con gli alleati. Gli americani non hanno alternative: in Afghanistan l’avanzata dei talebani pare inarrestabile, le basi di partenza sono nelle aree tribali pachistane e il domestico non è in grado di scoparle sotto il tappeto del salotto. Via libera, dunque, a un salutare allenamento con l’opposizione interna, nella speranza che, prima o poi, Musharraf impari ad assestare qualche colpo in testa anche ai guerriglieri con la barba.
Quanto ai nostri media, paiono poco interessati. Gli avvocati pachistani non vestono la grisaglia, ma le loro giacchette non possono neanche lontanamente competere con l’affascinante arancione dei monaci birmani. Tutti quindi a guardare “Zelig”, facendo finta di non sapere che finito lo spettacolo, Bisio e Ariel andranno a mangiare insieme in trattoria… talebani permettendo!

Il Circo Barnum si è messo in moto: per che artista applaudire, “turandosi il naso”…



Il Circo Barnum delle elezioni presidenziali americane si è messo in moto il 4 novembre, per un tour che tra un anno esatto darà un nome alla persona che per un quadriennio potrà fare il giocoliere con i destini del mondo. Sarà utile procurarsi un buon posto in prima fila, visto che l’esito della competizione condizionerà le nostre esistenze molto più che i miseri spettacolini di strada che si mettono in piedi dalle nostre parti.
Necessario sottolineare subito che sarebbe stato meglio occuparsi degli artisti qualche mese fa, visto che ormai i loro curriculum sono stati ampiamente rimaneggiati, fino a farci credere che la prima frase compiuta che abbiano pronunciato nella loro vita sia stata: “io amo questo paese”, e la seconda: “io amo anche tutti gli altri paesi”. Gli esperti di comunicazione li hanno presi per mano, e dopo aver interpretato il volo degli uccelli o letto i fondi del caffè per cercare di capire in che direzione tiri l’umore del paese, hanno già scritto ogni parola che dovranno pronunciare nei prossimi dodici mesi, con una particolare attenzione a virgole e pause ad effetto. I loro guardaroba sono già stati messi in naftalina dagli esperti del look, e i candidati si sono trasformati in mannequin cui non è più consentito scegliere neppure il colore dei pedalini (o i denari delle calze, vista la novità rappresentata da una candidatura femminile). I pagliacci stanno già girando col cappello in mano tra il pubblico, ma non sentirete il dolce tinnire delle monetine, sostituito dal più prosaico frusciare di assegni inzeppati di “zeri” che le Sette Sorelle, o i fratelli Bum-Bum, o molte altre simpatiche rimpatriate di famiglia, reputano da sempre i soldi meglio spesi della loro vita. I contorsionisti non mancano e si danno un gran daffare ripercorrendo le esistenze dei candidati: andando a ritroso, potete star certi che troveranno un vecchio compagno delle elementari disposto a giurare che da piccolo il futuro presidente gli aveva rubato la merendina dal cestino o un biondina slavata pronta a minare l’idilliaco quadretto famigliare che il candidato aveva faticato a dipingere, facendo ampie e dolorose concessioni alla consorte. Volantini e biglietti omaggi, in questi mesi si sprecheranno, e l’informazione farà acrobazie per gestire un’imparzialità molto di parte. I candidati, prese ripetizioni da “rocket man”, vivranno prevalentemente a diecimila metri d’altezza, con qualche puntatina a terra, tanto per ricordarsi che consistenza abbia la cosa su cui anelano mettere le mani. Gran duello finale dei due cown promossi dalle primarie, che si tireranno sonori schiaffoni in dirette televisive programmate a tavolino come la partita decisiva di un mondiale di scacchi.
A questo punto qualcuno potrebbe sbottare, e farmi notare come in tutto questo non ci sia nulla di nuovo, e lo spettacolo, pur faraonico come un “Aida” di Zeffirelli, è molto simile a quelli già visti. Io faccio l’imbonitore, e mi pagano per contraddirli.
Per la prima volta vedremo sul palcoscenico una donna, con la conseguente possibilità di vedere un “First Man” occuparsi delle suppellettili della Casa Bianca. Una donna che dovrà cimentarsi nella non facile impresa di fare incetta del voto femminile senza far sparire il telecomando da quelle maschili. Per la prima volta un nero potrebbe prender possesso della Casa Bianca, cosa che oltre tutte le implicazioni razziali, già di per sé rappresenta un ossimoro non disprezzabile. Per la prima volta dal 1928 il presidente in carica è tagliato fuori dai giochi e il suo vice non è interessato a subentrare, cosa che lascia le praterie repubblicane ricche di pascoli per i bisonti che hanno deciso di cimentarsi. Ma soprattutto, per la prima volta, Internet avrà un ruolo determinante nello svolgimento della competizione: “MySpace”, il social network più frequentato di tutto il Web, ha inaugurato una sezione interamente dedicata alla campagna elettorale: si chiama “Impact” ed è una vetrina digitale per i candidati americani, che saranno protagonisti di un palinsesto audiovisivo spiccatamente promozionale, nonché di blog, forum, strumenti per la raccolta fondi e album fotografici partecipativi.
Le praterie sono vaste, ma lo spazio è tiranno.
Proseguiremo occupandoci degli artisti… sempre che vi faccia piacere… (continua)

il Manuale delle Giovani Marmotte

chiunque abbia, più o meno, la mia età ricorderà con un sorriso il “Manuale delle Giovani Marmotte”. A chi è più giovane sarà necessario far sapere che i manuali - visto che in Italia a cura di Mondadori ne sono usciti sei - erano piccole enciclopedie in cui i personaggi Disney spiegavano ai ragazzi come stare a contatto con la natura e cavarsela da soli. Qui, Quo, Qua indossavano un buffo cappello di pelo alla David Crocket e, diretti dal Gran Mogol, che per la verità era un po’ antipatico, andavano per boschi e si ritrovavano in situazioni difficili prontamente risolte grazie all’infallibile manuale, fino all’immancabile conclusione con l’ambitissima medaglia al merito. Si poteva apprendere come costruire aquiloni, mongolfiere e bussole, come fare nodi, come funzionavano l’alfabeto morse o i segnali di fumo, quali erano i nomi delle tribù indiane e come risalire da un’orma all’animale che l’aveva lasciata.
Ma i tempi sono cambiati, i manuali sono finiti a prendere polvere in qualche cantina e la Mondadori, dopo un paio di tentativi di ristampa, ha interrotto le pubblicazioni.
Sembra che i giovani anche oggi siano ancora attratti dalla vita all’aria aperta, solo che come potrete vedere nel filmato, paiono poco interessati al montaggio di aquiloni, e più attenti alle impronte umane che alle orme di animali. Il manuale però ricopre ancora un ruolo fondamentale, anche il compendio delle conoscenze indispensabili in un volume pare cosa ardua: il manuale del Kalashnikov ha dimensioni davvero importanti e quello della pistola elettrica Teaser non è da meno.
In ogni caso, se volete accelerare i tempi, potete chiedere lumi a Shawn Newberry, un ragazzo americano che andava a scuola indossando sotto la camicia un giubbotto antiproiettile: quando gli sono state chieste spiegazioni, ha risposto che aveva i suoi buoni motivi. A casa di Shawn, gli agenti hanno trovato tre fucili Kalashnikov, una pistola elettrica Taser, un elmetto tattico e oltre duemila proiettili. Il padre di Shawn ha negato che il figlio avesse intenzioni "aggressive". Ha comprato le armi, ha aggiunto, perché voleva divertirsi con gli amici.
Michael Moore, nel famoso film s’interrogava su due cose: come fosse stata possibile la strage di Columbine e da dove venisse la propensione dei suoi connazionali per la violenza. Se potessi parlare con lui, avrei modo di fargli notare che la strage nel liceo di Columbine non è un caso isolato, visto che da allora questi episodi si ripetono con regolare cadenza. Quanto al suo non trovare una risposta alla propensione alla violenza, potrei spiegargli che la violenza nasce dall’ignoranza, dalla mancanza di educazione e di cultura. La realtà degli Stati Uniti sta tutta in quell’affermazione: “ voleva semplicemente divertirsi con gli amici”. Assurda fino ad un certo punto: quando i mitragliatori a ripetizione sono impilati di fronte ai panini per gli hamburger, difficile ricordarsi che non è tutto un gioco.
Scendo in cantina a cercare il Manuale.

c’è un paese che, ormai, è ben oltre “Blade Runner”



Oggi, giuro, vi rubo pochissimo tempo: è il giorno prima del ponte, e giustamente voi avete un sacco di cose da fare, invece di stare a sentire il sottoscritto che, tanto per cambiare, se la prende con i cowboys.
Mi ero ripromesso, per un po’ di tempo, di lasciare in pace (chissà se gli farà piacere?) gli americani e gli olandesi, ma una notizia di “Peacereporer” ha avuto la meglio sui miei buoni propositi.
Dunque, “Blade Runner” prefigurava un mondo in cui gli androidi, per quanto macchine perfette e del tutto simili agli umani, senza alcun scrupolo di coscienza, in caso di necessità, venivano “ritirati”: definizione meccanica della loro uccisione. Bene, e come non notare similitudini con la sparatoria al centro di Baghdad, in cui i cacciatori di androidi di “Black Water” hanno “ritirato” una ventina di iracheni senza che vi fosse alcuna minaccia per la loro incolumità. E come interpretare il fatto che associazioni che si muovono anche con finanziamenti statali, offrano l’iperbolica cifra di trecento dollari ad alcolisti e tossicodipendenti per sterilizzarli, ed evitare che possano mettere al mondo altre macchine difettose che andrebbero poi ritirate. Quanto ai quattro milioni di bambini esclusi dall’assistenza medica per mancanza di fondi, forse impiegati nelle sterilizzazioni di massa, riterrete troppo forte il termine “ritirato” , quando un giorno dovessero ammalarsi seriamente. Mi fermo qui, o volgiamo parlare dei metaldetector all’ingresso delle scuole e delle massicce operazioni di ritiro che a scadenze regolari si susseguono nelle stesse. Vogliamo parlare dell’uso massiccio della macchina della verità o di quella della tortura. Vogliamo parlare di Abu Ghraib o di Guantanamo…
Mi chiederete: ma perché addirittura, oltre, “Blade Runner”? Perché si dà il caso che quelli di cui stiamo parlando, invece di replicanti, siano esseri umani.
Mi farete notare, se avete visto il capolavoro di Scott, come il tetro scenario di un mondo privo di luce e inzuppato dalle piogge acide, sia pura fantascienza… Concordo, ma se gli States continueranno ad osteggiare il trattato di Kyoto e qualsiasi seria politica in favore dell’ambiente, potrebbe darsi che quel futuro sia meno remoto di quel che sembra.
Mi fermo qui, certo che come me ormai comprendiate l’entusiasmo di molti turisti al ritorno dagli Stati Uniti: “ hanno visto cose che noi umani… “ Tra l’altro il monologo più celebre della storia del cinema si deve ad un’improvvisazione di Rutger Hauer, cui Ridley Scott ha dato libero sfogo, in attesa di tagliarla in fase di montaggio… scusate, “ritirarla”.

Con il termine check-in (verifica) si intende il primo passo che viene effettuato da un passeggero del trasporto aereo... a volte, anche l'ultimo...


( da "Il Messaggero") PHOENIX (5 ottobre) - Una signora newyorchese quarantaacinquenne perde la coincidenza e viene lasciata a terra all'aeroporti di Phoenix, in Arizona. La donna si infuria, comincia a urlare, viene arrestata dalla polizia e muore in cella in circostanze poco chiare. «Strangolata dalle manette mentre cercava di liberarsi», hanno dichiarato le autorità dello scalo di Phoenix in Arizona. «Forse uccisa», ipotizzano i legali della famiglia, conosciuta a New York perché Betsy Gotbaum, la suocera di Carol, è l'avvocato dei cittadini del Comune. L'incredibile storia risale a venerdì scorso: il video girato dalle telecamere di sorveglianza dell'aeroporto ha fatto scoprire oggi qualche nuovo dettaglio sulla sorte di Carol - tre figli lasciati a casa nell'Upper West Side di Manhattan - senza però risolvere il fitto mistero che circonda la tragedia. Nelle immagini sgranate si vede infatti la donna che grida in mezzo al terminal gesticolando. Tre poliziotti e un funzionario civile le si avvicinano, cercando di calmarla, ma la signora non smette di urlare. Gli agenti allora l'affrontano e lei si getta a terra. Poi i poliziotti la costringono ad alzarsi, la ammanettano e la trascinano via a forza. Il resto non è chiara e viene ricostruito con il racconto di testimoni: «È arrivata al posto di polizia dello scalo priva di sensi», ha dichiarato Michael Manning, il legale dei Gotbaum, citando la deposizione di un dipendente di una aerolinea. Secondo Manning sul corpo della donna c'erano lividi e graffi. Carol era stata ammanettata con le mani dietro la schiena e incatenata a una panca della cella. Era stata ritrovata in punto di morte dai poliziotti di sorveglianza con le mani sotto il mento. «Qualcuno era entrato a controllare perché non urlasse più. Nel tentativo di liberarsi dalle manette si era auto-strangolata», ha dichiarato la polizia. Mentre era in corso il suo alterco con la polizia il marito Noah, rimasto a New York con i tre figli, era al telefono con un operatore dell'aeroporto implorando di esser messo in contatto con la polizia. Gotbaum aveva parlato con la moglie durante l'incidente al check-in e cercava di avvertire i poliziotti di trattare la moglie «con i guanti» perché Carol aveva «tendenze suicide» e soffriva di una «grave depressione». «La polizia deve capire che non hanno a che fare con un matto ubriaco», aveva detto il marito secondo la registrazione della telefonata resa nota dalle autorità. Carol Gotbaum avrebbe dovuto prendere un volo diretto per Tucson. Ma la mattina del giorno in cui è morta aveva cambiato idea e preso un volo più tardi perché aveva voluto assolutamente accompagnare a scuola i suoi tre bambini.

Il nemico numero uno di Bush non ha la barba


Il nemico numero uno di Bush non ha la barba, a differenza dei guerriglieri afgani e iracheni. Questo però non ci porti a sminuirne la figura, dal momento che i sondaggi dei giornali americani ci confermano che sta facendo più danni lui all’amministrazione repubblicana che la guerra in Iraq o tutti i democratici messi assieme. Dimenticavo, il nemico numero uno non ha la barba, non per scelta ideologica o tribale, ma per il semplice motivo che ha dodici anni è molto difficile che questo accada.
Graeme Frost, è il tipico dodicenne americano che abbiamo visto in centinaia di film cimentarsi col baseball o inseguire aerei perduti, ma si dedica a cose indubbiamente più serie e precoci per la sua età. Greame combatte per salvare la vita di quattro milioni di bambini americani, oltre che la sua. Una scelta in qualche modo forzata visto che Graeme, dopo uno spaventoso incidente stradale che ha coinvolto anche la sua sorellina, è rimasto in coma per una settimana e ha dovuto affrontare un lungo programma di riabilitazione. Ha ancora bisogno di terapie, pur avendo avuto salva la vita grazie a un programma di assistenza medica per i bambini indigenti chiamato Chip. Programma che ha versato i quattrocentomila dollari di cure mediche necessarie, e che il reddito annuale del padre, meno di un decimo, non sarebbe mai stato in grado di coprire.
Ora, voi vi chiederete come sia possibile abbattere, o anche soltanto far traballare, l’uomo più potente del mondo. Domanda lecita, visto che milioni di persone ci stanno provando in tutto il mondo, finora con scarsi risultati. La risposta è semplice: lo si può sconfiggere con una domanda semplice.
Graeme ha chiesto al presidente perché lo vuole morto. Domanda oltremodo lecita, visto che fino a quel momento Graeme non aveva fatto nulla a George W. Bush. Più precisamente ha chiesto al presidente perché voglia assolutamente mettere il veto al rifinanziamento della legge d’assistenza ai bambini indigenti, già votata e approvata dal Congresso anche con una settantina di voti repubblicani. Graeme non ha avuto bisogno di aspettare la risposta: è giovane, ma ha già ben impresso in mente come nel suo paese, in definitiva, il problema siano sempre i soldi. E non tanto la spesa che il programma di assistenza comporta, che pur rilevante, annualmente costa come un paio di settimane di guerra in Iraq, ma i mancati utili della potentissima lobby delle compagnie assicurative. In ogni caso, e per dovere di cronaca, la brillante risposta del profeta del liberismo è stata: “ Irresponsabile “… e naturalmente non era autocritica.
A questo punto la penna scalpita. Non si accontenta di graffiare, vuole trapassare il foglio di carta, e non si rassegna al fatto che il nostro sarcasmo andrebbe ad affastellarsi su un mucchio che di ora in ora si fa più imponente e autorevole.
Accontentiamola.
Per chi ricorda un vecchio e bellissimo film che ci parlava di nidi e di cuculi, potremo dire che ormai gli americani devono essere completamente lobby-tomizzati. Per restare in tema, potremo aggiungere che evidentemente in un paese in cui girano liberi duecento serial killer, se mai non aveste la fortuna d’incontrarne uno, ci penserà l’assistenza sanitaria a prendersi cura del vostro corpo. E per chi ha ricordi cinematografici più datati, limitarci a citare: “ Gioventù bruciata “.
La penna, al pari delle compagnie assicuratrici americane, è ingorda.
Ochei.Diciamo che abbiamo scritto tutto questo come appendice a una guida turistica per viaggi negli “ States “: se sfortunatamente incappate in un incidente, su una delle mitiche road, e notate che i soccorritori si danno un gran daffare per trovare il portafoglio del malcapitato, non stanno cercando la patente e il gruppo sanguineo. Se proprio li volete aiutare, dategli una mano a scoprire dov’è finita la carta di credito.

la amo...

anche se non so se sia sincera

Il 26 Giugno 2007, all'inizio di Morning Joe, Mika Brzezinski si è rifiutata di leggere una notizia riguardo allo scarceramento di Paris Hilton.
Un'ora dopo, durante un altro spazio dedicato all'attualità, il suo produttore Andy Jones ha riproposto la scarcerazione della Hilton come notizia d'apertura, prima della rottura del senatore repubblicano Richard Lugar dell'Indiana con il Presidente Bush riguardo alla guerra in Iraq, che Brzezinski considerava più importante.
Dopo diversi commenti scoraggianti del conduttore Joe Scarborough, ha provato a bruciare il foglio delle notizie con un accendino in diretta, ma è stata fermata dal co-conduttore Willie Geist. Successivamente ha strappato il foglio e, un'ora dopo, si è alzata e ha gettato una nuova copia del foglio in una macchina trita-documenti nell'ufficio di Dan Abrams. L'incidente è divenuto presto popolare su Internet e nei giorni successivi la giornalista ha ricevuto numerose lettere da parte di persone che appoggiavano la sua protesta in diretta di commentatrice riguardo alle tensione fra 'hard news' e 'entertainment news.

Se è stata sincera, è un grande esempio di giornalismo.

Se, come è più probabile, era solo un escamotage, come non ammirarne la genialità.

11 settembre: le ombre si allungano

Ormai sono passati sei anni dall’11 settembre del 2001, eppure quella data continua a sembrare a tutti così vicina, e credo che nessuno riuscirà mai ad allontanarsi veramente da quelle folli immagini che ci rincorrono. L’11 settembre del 2007 dovrebbe essere un giorno di commemorazione, di rimpianto e di riflessione, ma non sarà così: quest’ 11 settembre sarà un giorno di polemiche e di sospetti.
Molti ricorderanno l’immagine di un pregevole film in cui un anziano di Manhattan intuisce il crollo delle Twin Towers dalla sparizione dell’ombra che da sempre fagocitava il suo piccolo appartamento. Ma le ombre su quello che realmente sia successo quel giorno non sono sparite… semmai si sono allungate.
Nel paese più sciovinista del mondo, un quarto della popolazione non crede alla versione ufficiale della tragedia. Con diverse sfumature che vanno dalle accuse d’inefficienza, a quelle di connivenza, per arrivare a quelle di aperta complicità, il dito si punta contro l’amministrazione Bush. I giornali, americani, hanno preferito far cadere un velo di silenzio, propendendo per l’assunto che se una cosa è troppo assurda per essere vera, sicuramente non è vera. Ciononostante, milioni di americani sono del parere opposto, e i molti nomi illustri ne rendono difficile la classificazione come dietrologi o visionari.
Del resto rimane molto difficile trovare spiegazioni plausibili alle incredibili speculazioni di borsa che hanno anticipato l’evento, ai diversi testimoni che confermano esplosioni ai piani bassi degli edifici, ai misteri del volo della United Airlines 93. Inoltre il famoso rapporto ufficiale sui fatti, invece di fugare i dubbi, li alimenta. Nel rapporto si parla il meno possibile dei crolli del World Trade Center. È paradossale, ma è così. Non viene detto che il fuoco non ha mai fatto crollare alti edifici dotati di una struttura in acciaio, e non viene osservato che quei crolli hanno ben 10 caratteristiche comuni alle demolizioni controllate. Non si parla dell'asportazione dell'acciaio e delle macerie, avvenuta in fretta e furia dopo il diradarsi delle polveri e prima che qualunque esperto o commissione avesse la possibilità di esaminarle: quella asportazione avrebbe coperto qualsiasi prova dell'uso di esplosivo. Riguardo lo schianto di un aereo sul Pentagono sono state ignorate alcune delle domande più inquietanti, in modo da favorire la teoria ufficiale: perché i terroristi avrebbero colpito l'Ala Ovest, in fase di ristrutturazione? Il rapporto non dice che foto scattate dalla Associated Press e persino da un marine, mostrano che fino a 30 minuti dopo che il Pentagono sarebbe stato colpito da un 757 a 640 km orari, la facciata non era crollata. Non viene detto che nelle foto si nota che il buco che si formò era piccolo e che nessun Boeing avrebbe potuto starci. Men che meno viene osservato che quelle foto non mostravano nessun Boeing fuori dal Pentagono, né alcun rottame di esso. Il rapporto ufficiale di una Commissione degli Stati Uniti d'America non si chiede perché il sistema anti missili del Pentagono non ha abbattuto il fantomatico Boeing, dato che tale sistema era in grado di abbattere qualsiasi velivolo commerciale nelle vicinanze del Pentagono. La Commissione ha ignorato il “Progetto per un Nuovo Secolo Americano”, documento ad opera di diversi individui che ora fanno parte dell'amministrazione Bush: eppure in quel documento c'era la famosa ed esplosiva frase secondo cui un'altra Pearl Harbour avrebbe aiutato gli Stati Uniti.
Potrebbe bastare, ma, a pochi giorni dalla ricorrenza della tragedia, si aggiunge il ridicolo messaggio di Bin Laden: il capo supremo del terrore mondiale invece di rinnovare l’invito alla jihad contro gli infedeli sembra essersi trasformato in arguto commentatore della politica interna americana, pare avere già in tasca la tessera del partito democratico e, visti gli incitamenti allo sciopero fiscale, adombra il sospetto che più che tra le montagne afgane, andasse cercato tra le colline varesine dove deve essere stato a colloquio con i massimi esponenti della Lega Nord.
Inoltre sembra decisamente ringiovanito: cosa oltremodo seccante per un popolo che per anni si è fatto in quattro per tentare di non far invecchiare le proprie cariatidi hollywoodiane.
La misura mi sembra colma, anche volendoci dimenticare che tutto questo avviene in un paese che ha la necessità di fatturare la guerra come il nostro ha quella di fatturare il turismo. In un paese che ha visto morire un presidente impallinato da qualche centinaio di metri con una carabina da lunapark e che ha invaso una nazione avendo in mano le prove di armi di distruzioni di massa e di atomiche, per tornarsene a casa con un fascio di scimitarre, probabilmente d’arredamento…
Qualcuno ha giustamente affermato che la verità sull’ 11 settembre non la conoscerà la nostra generazione, ma io credo che abbiamo il dovere di fare tutto il possibile perché la possa conoscere almeno la prossima.

americanate




Gli americani consigliano ai propri connazionali di non andare a Napoli fino a dicembre. Chissà se sconsigliano anche i viaggi in Iraq e in Afghanistan... e fino a quando?
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