il ministero e la procura vi hanno assolti: non c'è problema, vi condanno io


Matteo aveva sedici anni, frequentava una della scuole più prestigiose di Torino, l'istituto Sommeiller, in uno dei quartieri più esclusivi della città. Matteo era figlio di una collaboratrice famigliare filippina. Matteo era un ragazzo di colore. Matteo è morto.
Non scriverò che Matteo si è suicidato, perchè Matteo è stato ucciso.
Matteo, per lungo tempo è stato deriso ed emarginato dai suoi compagni di scuola: " Mi deridono per i voti troppo alti. Mi danno del gay, mi chiamano Jonathan, come il personaggio del Grande Fratello ". Il tutto è durato a lungo, e sarebbe durato ancora, se Matteo non avesse posto fine al tutto con la scelta tragica di lanciarsi da una finestra del quarto piano... forse l'unica soluzione che gli è parsa in grado di porre fine alle proprie sofferenze.
Una morte assurda ed ingiusta reclama rivalsa, ma io non punterò il dito contro i suoi compagni di classe, o lo farò solo in minima parte. Certi fenomeni sono sempre esistiti, e non si può certo pretendere molto da chi si nutre delle parole e dei valori dei reality-show: forse per loro emarginare altro non è che una " nomination ". Preferisco invece puntare il dito sulle famiglie cui era deputata la loro educazione: famiglie della Torino Bene, dove il razzismo è talmente lieve e impalpabile da farne quasi un passatempo. Un razzismo che, al massimo, si manifesta con dei sorrisini di sufficienza o l'alzarsi di un sopracciglio, che si da per scontato, che si coniuga con il classismo di " per la carità... siamo tutti uguali ", ma qualcuno è molto più uguale degli altri. E i figli crescono in fretta... i figli capiscono, e i figli guarda caso mettono in mezzo il figlio di colore di una domestica filippina, mica quello del primario delle Molinette... guarda caso...
A qualcuno invece non farò sconti. Cosa hanno fatto gli insegnanti per evitare una morte assurda... Nulla! Se avessero fatto qualcosa non saremo qui a parlare di una morte assurda.
Cosa avete fatto: ma osservate i comportamenti dei vostri allievi? ...davvero ...non credo. Ma gli avete fatto leggere autori che potevano aiutarli a riflettere sui loro comportamenti o gli avete propinato qualche lettura in sintonia col vostro credo politico, o qualche altra, palesemente inadatta alla loro età, ma tale da attribuirvi la patente di avanguardia educativa?
Politica e Legge vi hanno assolti... forse un giorno vi accorgerete di avere una coscienza, e non credo che sarà altrettanto tenera con voi. E se questo non dovesse avvenire, vi condanno io, e con me, tutti quelli che approveranno questo articolo.

10 commenti:

Anonimo ha detto...

a leggere le tue righe degli ultimi due post e i relativi commenti, mi viene da pensare che siano due aspetti dello stesso gravissimo problema: l'educazione dei figli ed il giusto modo di rapportarsi con essi. intendo educazione in senso lato, quella che si dovrebbe ricevere dai genitori ma anche dai maestri, dai compagni, dalla strada e dalle istituzioni. siamo una generazione di cattivi educatori e ora che i nostri figli crescono ne raccogliamo i frutti.

riccardo gavioso ha detto...

Che dire, Gigisau... il tuo commento è impeccabile. E altrettanto ineccepibile il sottolineanere la stretta connessione tra gli ultimi due post.
Posso solo aggiungere che purtroppo oggi il genitore, nella stragrande maggioranza dei casi, può disporre di un tempo molto limitato per interagire con i propri figli. Il ruolo della scuola è preponderante: loro hanno a disposizione mio figlio per otto ore, a me, se tutto va bene, ne avanza una la sera. In pratica, come educatori, siamo azionisti di netta minoranza...

Anonimo ha detto...

Questo episodio mi fa ricordare i tempi delle elementari... io figlia di un operaio ed una portinaia in un quartiere centrale di Milano... a scuola con figli di dottori, professori, avvocati etc etc...
Con chi ho giocato dalla seconda elementare in poi? Con l'unica altra bambina che aveva una famiglia non di "élite".

Un bacio a Matteo, per quello che può servire.

Anonimo ha detto...

Cosa dire?? Sconcertante, veramente sconcertante....
Purtroppo anche se cerco di non pensarci, non è possibile non pensare anche a mia figlia.
Cosa succederà negli anni a venire, la diversità (pur leggera) del colore della pelle potrà crearle problemi nella vita quotidiana???

Spero di no, spero che passando gli anni, passino anche queste brutte tradizioni che ci portiamo dietro.
Spero che l'integrazione razziale aumenti sempre di più, eliminando o almeno riducendo il problema.

Oggi vedo che nella scuola materna insieme a mia figlia ci sono bambini Filippini, Cinesi, Senegalesi o Marocchini, magari molti di questi hanno un genitore extracomunitario e l'altro Italiano.
Spero che questo possa "mescolare" sempre più le razze in maniera che un giorno potremo dire: "siamo cittadini del mondo"

Questo è quello che spero...purtroppo non posso dire questo è quello che sarà....

Anonimo ha detto...

Anch'io ho passato un'infanzia 'alla Matteo' e solo la malattia di mia madre e il mio carattere mi hanno salvato da una fine simile...

Un saluto a chi non c'è più...
Un urlo a chi lascia cadere nell'indifferenza tutto questo...
BASTA!

riccardo gavioso ha detto...

Stefano, ti posso tranquillizzare: la figlia di mia cugina è indiana, e non mi risulta che abbia avuto dei problemi significativi in tal senso. Credo che la differenza la faccia l'ambiente: un conto è Asti, un conto i salottini ovattati della Crocetta. La Toscana, che è terra che amo e conosco bene, mi sembra abbia ottime tradizioni di accoglienza e tolleranza. Sarei ottimista...

Anonimo ha detto...

Personalmente non posso che rabbrividire sentendo certe notizie e ancor più inorridisco notando come certe notizie vengano riportate più per cercare una commozione facile, anziché con la delicatezza che meriterebbero. Certe tragedie andrebbero secondo me trattate "in punta dei piedi", attenti a rispettare davvero gli infelici protagonisti e invece spesso si finge partecipazione solo per nascondere un certo gusto voyeuristico.
Personalmente, per fortuna, non mi sono mai trovato in situazioni così pesanti. Già l'essere figlio di operai in un liceo classico, tra la creme de la creme, dove il 97 % degli studenti sono figli di famiglie bene e danno del tu ai professori (che sono madrine di battesimo o parenti non troppo alla lontana) non è precisamente esaltante. Ma almeno potevo infischiarmene e vivere bene ugualmente. Altri ragazzi, invece, non hanno avuto e non hanno la mia fortuna, sia pur relativa. Pensare che si possa arrivare ad un livello di diperazione tale da togliersi la vita a così pochi, troppo pochi anni è una cosa che mi spaventa e mi riempie di dolore.
Sulle responsabilità, sinceramente non me la sento troppo ad avanzare accuse. Io, in quanto docente, posso solo dire che è vero che ci sono molti insegnanti che non provano nemmeno a svolgere il proprio mestiere con la dedizione che dovrebbe comportare, ne vedo ogni giorno di insegnanti così. Ma è anche vero che non sempre si ha la possibilità di agire: troppi vincoli, troppi elementi inutili e troppo poco tempo per parlare davvero con i ragazzi, per capirli, per accorgersi dei loro disagi. Non so se mi sono spiegato bene, forse qualcuno si scandalizzerà. Io stesso lo faccio, ogni volta che penso che il 70-80% dei docenti fanno dell'insegnamento un mestiere e non una vocazione. Bisognerebbe ritornare ad una scuola meno azienda e più luogo formativo. Ma così non è e così il dialogo necessario è reso molto complicato.
E le persone più fragili a volte non ce la fanno. E' una pena davvero grande. Nel cuore sono molto vicino a Matteo. Ma non consola. Non si può morire a 16 anni.

riccardo gavioso ha detto...

La differenza l'hai identificata tu con precisione: insegnare per mestire o per vocazione.

Non dirmi però che un insegnante non si accorge di quale sia nella propria classe il ragazzino emarginato che finisce per diventare il divertimento della classe.
Perchè allora non invitarli a una riflessione? Perchè non raccontare la storia di Matteo? Perchè non spiegargli che " le parole sono pietre "... non è detto che a una certa età se ne debbano per forza rendere conto.

Anonimo ha detto...

Su questo punto, preciserei. C'è il caso di chi, come me, è precario, e cioè sta una mese da una parte, quindici giorni da un'altra, altri quindici da un'altra ancora (senza citare i "buchi lavorativi"). In questo caso, appena si individuano le dinamiche del gruppo "classe" e ci si accinge ad instaurare un dialogo, si è già a fine contratto e tutto si perde lì. In alcuni casi, fa venire il magone separarsi da ragazzi con i quali cominciava a funzionare il rapporto, ma è così, ed ogni intervento a protezione dei più deboli è limitato dall'interruzione del contratto. In altri casi c'è chi potrebbe fare e non fa, e questi una mano sulla coscienza se la dovrebbero mettere. E poi ci sono i docenti "bip", che emettono sentenze impietose e scioccanti per il loro profondo razzismo intrinseco (e non mi riferisco solo al razzismo in senso proprio). Quando un ragazzo è schedato e si rende conto di non poter cambiare il giudizio di chi, in quanto educatore, dovrebbe aiutarlo, non c'è da stupire che poi non combini che disastri, con conseguenze più o meno gravi. E non stupisce che, chi è più debole e trova un insegnante che lo guarda dall'alto in basso, si senta solo e possa pensare a gesti estremi.
Per fortuna ci sono anche molti insegnanti che fanno il loro dovere con coscienza e aiutano i ragazzi, pur nei molti vincoli che la scuola pone. Più facile se si sta per un minimo di tempo nel medesimo gruppo di ragazzi, ma ciascuno si deve impegnare. Io lotto strenuamente contro i pregiudizi agghiaccianti che sento nei Consigli di Classe, ma da giovane precario posso fare relativamente. Cerco di instaurare un rapporto umano con la classe, che non sempre è semplice e ancor più difficile se si sta in un posto per troppo poco tempo. Poi c'è chi se ne frega e questo è grave.
"Le parole sono come pietre": sacrosanto. Nel maggio scorso avevo un allievo iperazzista che dovevo zittire continuamente e cercare di fargli comprendere la gravità delle sue affermazioni. Ma la famiglia stessa era iperrazzista e quand'è così non si ottiene molto. Anche questa è una cosa che manca alla scuola: un rapporto con le famiglie, che non significa quelle patetiche partecipazioni formali a decisioni che la scuola ha già stabilito e neanche che genitori iperprotettivi neghino l'evidenza per difendere rampolli viziati e nullafacenti. Significa collaborare, significa cercare di educare il ragazzo, insieme e ciascuno per la propria parte, senza farne solo un sacco da imbottire di nozioni, col rischio che poi nel sacco ci sia una falla e scoppi.
Quello dell'educatore è un'attività difficilissima, ma non la si dovrebbe fare solo per lo stipendio. Allo stesso tempo, bisognerebbe riformare seriamente il sistema in modo che sia garantito effettivamente una continuità didattica, il che significa anche una continuità del rapporto umano e della possibilità di intervento. E senza dimenticare che la scuola non è un compartimento stagno, separato dal resto, ma uno degli elementi sociali che devono necessariamente agire insieme.

riccardo gavioso ha detto...

ti ringrazio per l'articolata testimonianza, e comprendo le difficoltà che derivano dal tuo ruolo. Dall'esperienza scolastica di mio figlio ho però ricavato l'impressione di carenze notevoli sotto il profilo educativo, e lo trovo un peccato: le nozioni col tempo se ne vanno, l'educazione che può darti un buon professore può accompagnarti tutta la vita.

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